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Lettera di un liceale in visita ad Auschwitz

“Insensibilità” e speranza

                                                         

Così, ecco Auschwitz.

E’ vero, giravamo l’uno accanto all’altro, ma eravamo soli…

Noi stessi e le ombre della storia.

 

L’impatto è stato forte. Ognuno ha reagito diversamente, ognuno ha avuto il suo punto di rottura, ognuno ha avuto un preciso istante in cui si è chiesto:<<Ma come è potuto accadere?>>.

Alcuni hanno pianto, sì, ci sono riusciti, e per questo forse un po’ li invidio.

Avrei pianto. Ma quel gelo che mi era calato sul cuore non è riuscito a sciogliersi in lacrime.

Per quanto mi riguarda, ma so di non essere stato l’unico, la più terribile delle sensazioni è stata invece proprio il non emozionarsi, il non essere riusciti a provare nulla davanti al male nella sua forma più pura. Dal che nasceva dopo un attimo una certa vergogna di noi stessi.

Ho pensato molto al riguardo, anche al ritorno dal viaggio, e mi rendo conto che sia difficile far capire questo stato a chi non lo ha vissuto, almeno quanto è facile a intendersi per chi invece era lì: ci proverò tuttavia.

Forse non tutti sanno che all’interno del campo di Auschwitz c’era una vera e propria prigione: il che, visto il contesto, non mi è sembrato affatto scontato. Il filo spinato che circondava l’intero campo non aveva forse già sancito la morte di ogni libertà?

Inutile dire che gli sfortunati che facevano ingresso nel fatidico Blocco 11, due volte prigionieri, due volte umiliati, difficilmente vedevano nuovamente la luce del sole.

Perché di luce, in quei sotterranei, proprio non ce n’era.

In un settore particolare si trovavano le celle di segregazione, diligentemente costruite ancora più anguste della altre, lunghe per l’esattezza  90cm e profonde 90cm. Ora, proviamo a pensare di essere murati qui dentro, in meno di un metro quadrato, senza aria, senza cibo né acqua, per un tempo dipendente dall’umore del kapò di turno. L’idea fa rabbrividire.

Ma in questo spazio erano rinchiusi non uno, ma quattro  prigionieri alla volta, per giorni interi nelle condizioni appena descritte…

Beh, quando mi sono trovato lì mi è sembrato inconcepibile, inaccettabile, quindi impossibile. Sapevo di sbagliarmi, perché questo è stato, ma non ho provato nulla squadrando quegli spazi claustrofobici… nulla: a tal punto inimmaginabile è giunta la crudeltà dell’uomo.

 

Ed è così che è proseguita la visita al campo: passo dopo passo, Blocco dopo Blocco, per l’intera mattinata qualsiasi punto dove volgessi lo sguardo incrinava inevitabilmente la mia fiducia nell’uomo.

 

Quando ecco che, nell’uscire, poso gli occhi sulla beffarda scritta in ferro battuto che troneggia sulla cancellata. Certo, quelle parole sono note al mondo intero, le avevo già lette in centinaia di fotografie, nonché al momento stesso dell’entrata nel campo. Tuttavia c’era qualcosa di diverso in quel momento, e solo dopo qualche secondo capii il perché… lessi a mezza voce, sillabando le lettere, esattamente quello che vedevo: IERF THCAM TIEBRA.

Sì, altro non era che la lapidaria sentenza della porta principale, al contrario: ma è stato anche, almeno per me, qualcosa di più. Ho pensato a quante poche persone nella storia, varcando la soglia della cancellata, hanno avuto la fortuna di leggere quella scritta come la  vedevo adesso: perché da quella porta che per anni era stata un senso unico verso la morte, beh proprio da quella porta io stavo uscendo. Gli occhi si sono inumiditi ed ho abbozzato un sorriso, per la prima volta quella mattina.

 

Studente Liceo di Modena in visita ad Auschwitz.

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